Portone

Non l’ho detto, ma forse l’hai indovinato.
Domenica sono passata veloce davanti a quel portone, perché l’emozione stava per travolgermi, e avrei pianto. L’ho sentita aumentare ad ogni passo, e il fiatone non era dovuto solo alla salita.
Erano i miei passi che nonostante il caldo percorrevano senza fatica quella strada ripida, che l’ultima volta avevano affrontato con difficoltà.
Erano le strade familiari, i portoni, le persone che attendevano quell’autobus tanto raro che se lo perdi ti conviene andare a piedi.
Erano le somiglianze e le differenze, i negozi nuovi, quelli che avevano chiuso, le case ristrutturate e quelle ormai cadenti.
Da più di quattro anni non rivedevo quel portone, non ne avevo avuto il coraggio.
Quella visita veloce sotto il sole cocente, in una città svuotata dal caldo, è stata un dono grande, più di quanto tu possa immaginare.

Luoghi

Il centro di Clusone, con le strade strette e talvolta ripidissime, piazza dell’orologio con quel capolavoro su cui mai mi è riuscito di leggere le ore, la danza macabra che mi provoca un’emozione grande ogni volta che la vedo. I paesi dell’altopiano, collegati da strade segnalate e da sentieri che tutti i ragazzini conoscono (e chissà se esistono ancora). I profili delle montagne circostanti, e per me la Presolana sarà sempre a est e il pizzo Formico a sud. Il Serio e la sua acqua gelida, anche nelle estati più calde.
Il Duomo di Rimini (che solo a scuola ho sentito chiamare Tempio Malatestiano). Piazza tre martiri. Piazza Cavour e la vecchia pescheria.
Le Rive e piazza Unità d’Italia, a Trieste. Il molo Audace e le meduse grandi, bianche e viola, che proliferavano nel porto. Le case dello studente, brutte, scomode, spesso mal tenute, ma piene di gente e di storie, di modi di vivere e di arrangiarsi. Cittavecchia, le sue scalinate e salite ripide, la mansarda dove mi son sentita a casa. Barcola e i “veci” che prendono il sole ogni giorno, per mesi, fino a sembrare fatti di cuoio, gli uomini con minuscoli slip e le donne in topless, divertendosi e senza vergogna.
Fivizzano, dove tira sempre vento e dalle cui mura mi affaccerei altre mille volte. La valle del Lucido e i suoi paesi, dove ormai mi ero abituata a salutare chiunque incontrassi mentre passeggiavo. La fortezza della Brunella, che annuncia l’arrivo ad Aulla (e che non ho mai visitato). Pontremoli e le case a strapiombo sul fiume, e l’ospedale dove è nata la piccola sapiente, a fianco del quale sorge l’edificio, bellissimo, del vecchio ospedale.
Decine di altri luoghi, dove sono stata magari una sola volta, ma che per ciò che vi è avvenuto, o solo per uno sprazzo di bellezza, sono rimasti nella mia memoria.
Anche qui, dove l’occhio stenta a fermarsi su qualcosa, ci sono attimi di bellezza assoluta.
Quando il cielo è limpido, e non capita spesso, a nord si vede sorgere l’imponente corona delle Alpi, con quello che mi dicono essere il Monte Rosa. Il campanile del paese è alto e bellissimo, specialmente se osservato dalla villa dove ha sede il Comune, in un giorno di sole. La campagna che divide casa mia dal Naviglio Grande e dal Ticino. Il parco, con gli alberi immensi e i pavoni dal verso stridulo.
Tuttavia, ancora il cuore non sa o non vuole mettere radici, forse per la paura di vedersele ancora una volta lacerare dall’ennesimo trasferimento non desiderato.

Qualcun altro l’ha detto meglio

Trago dentro do meu coração,
Como num cofre que se não pode fechar de cheio,
Todos os lugares onde estive,
Todos os portos a que cheguei,
Todas as paisagens que vi através de janelas ou vigias,
Ou de tombadilhos, sonhando,
E tudo isso, que é tanto, é pouco para o que eu quero.

Fernando Pessoa, Passagem das horas

Lascio una Trieste soleggiata e fredda, di mattina, salutando dal treno le numerose navi ferme nel golfo, dopo giorni di bora forte.

Ancora una volta il mio cuore si spezza. Ancora una volta la mia anima è lacerata.

Lascio la città nella quale sono diventata adulta, una città in cui sono stata felice, nella quale vivono alcune persone particolarmente vicine al mio cuore, alle quali non so dire quanto io voglia loro bene. Spero di essere riuscita a dimostrarlo.

Se non fosse per la piccola sapiente che mi attende tanto più a ovest, nella pianura senza fine, addomesticata, senza gioia, questo treno avrebbe un passeggero in meno…

Migrazioni (e distacchi)

Che i politici se ne escano spesso con frasi poco felici, che scatenano polemiche fra il “popolo”, non è una novità. Il sospetto che si tratti di una strategia per distrarre da altre, ben più importanti questioni sorge ogni volta, e come ebbe a dire (pare) un altro politico, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende.
Prendiamo quindi con le pinze l’ultima esternazione di un ministro, anche se mi sembra opportuno rifletterci su. Mi riferisco, naturalmente, all’affermazione sugli italiani che cercano il lavoro solo vicino a casa, perchè non vogliono allontanarsi da mamma e papà.
Come sapete (e se non lo sapete, il nome del mio blog dovrebbe suggerirvelo), la migrazione è una costante della mia vita. In 30 anni ho avuto 6 diverse residenze, in altrettanti Comuni, in tre diverse regioni; inoltre, sono a mia volta figlia e nipote di migranti interni, poichè mia madre è riminese (ma non lo era nessuno dei suoi genitori) e mio padre, nato in Piemonte, è cresciuto a Roma. Insomma, noi la migrazione, soprattutto per questioni di lavoro, ce l’abbiamo nel DNA.
Ad ogni nuovo spostamento bisogna ricominciare da capo. Nuova casa, nuovo lavoro (o nuova scuola, o università), nuovi negozi di fiducia, nuove amicizie, nuove reti sociali. Non sempre è facile: il mio ultimo trasloco, per esempio, mi è costato un periodo di lungo isolamento, perchè senza lavoro e con una bambina piccola fare nuove conoscenze non è facile. Anche trovare i servizi, se non si conoscono la zona e il suo tessuto sociale, può essere difficile. Cercare lavoro, infine, può essere quasi impossibile, considerato che ancora oggi la stragrande maggioranza delle assunzioni avviene per chiamata diretta di persone che hanno saputo dell’offerta di lavoro da amici, parenti o conoscenti, il che ovviamente diventa difficoltoso per chi non ha una rete sociale vasta.
Bisogna inoltre considerare i problemi legati alla cura dei membri deboli delle famiglie: anziani e bambini (sui disabili non mi pronuncio perchè son troppo ignorante).
Mia madre ha 63 anni e abita sola a 250 chilometri da me, e non passa giorno senza che mi chieda come farà, quando sarà troppo vecchia per badare a se stessa e alla sua grande casa. Ha sempre dichiarato di voler andare in una casa di riposo, ma sappiamo che questo potrebbe essere un problema, poichè non sappiamo se ce ne sia una adatta (e poi dove, vicino a me o lì dove abita?), se vi sia posto e se la sua pensione basterà per pagare la retta. Se fossimo vicine, naturalmente, sarebbe tutto più semplice.
Mia figlia ha due anni e mezzo. Frequenta saltuariamente un asilo nido privato, la cui retta è discretamente alta, poichè non abbiamo parenti o amici che possano badare a lei quando io lavoro, vado a un colloquio o semplicemente devo sbrigare una commissione e non posso portarmela dietro; la scelta del nido privato non è stata una vera scelta, poichè dato il mio stato di disoccupazione, semplicemente, non sarebbe mai entrata a quello comunale. Ora che si avvicina l’inizio della scuola materna, siamo daccapo, poichè non sappiamo se sarà ammessa, e se non lo sarà dovremo trovare a tempo di record una struttura privata che la accetti. Se vicino a noi ci fossero nonni o zii, tutte queste spese ce le potremmo risparmiare.
Al ministro e ai sociologi certo non interesserà, ma le migrazioni hanno anche un aspetto emotivo. In tutti questi anni e questi chilometri mi sono lasciata indietro decine di persone cui volevo bene. Per molti versi, probabilmente, è colpa mia, visto che telefono poco e al telefono sono molto fredda; tuttavia, temo che per chi è nato, cresciuto e vissuto sempre nello stesso posto, o quasi, sia difficile comprendere la mia necessità di distaccarmi emotivamente, per non sentirmi lacerata ad ogni distacco.
Mi lascerò indietro altre persone, alla prossima migrazione, e non so nemmeno quando e come avverrà… ma ci sarà.

Dopo due anni, brevemente

Dopo due anni, brevemente, Trieste.
Il golfo che scintilla, fuori dal finestrino, mentre il treno scende verso la città. Visto decine di volte, mai visto così.
La stazione, gli autobus, il sole, il vento, l'università, le strade, le persone, tutto mi viene incontro familiare. Riconosco alcune delle solite vecchiette, salgono sull'autobus in via del Coroneo.
Due anni non sono molti, ma sono bastati per far spuntare una fontana in piazza della Borsa (e far sparire il capolinea della 17, che non ho trovato).
Una passeggiata a Barcola, sole magnifico e vento teso; l'immancabile signora di una certa età, in topless e con la pelle color cuoio, stava sdraiata ad abbronzarsi insieme a un'altra manciata di persone in costume.
Rientrando ieri sera, il profumo degli alberi fioriti, nella parte alta di via Cologna, mi ha colpita come un ricordo felice, e mi ha quasi fatta piangere.
In questa città sono diventata adulta. In questa città mi sono divertita molto, ho stretto alcune grandi amicizie, ho vissuto da sola tirando la cinghia ma col cuore leggero.
Da qui, due anni fa, me ne sono andata fra fiumi di lacrime, credendo che il futuro fosse buio, e oggi ci torno portando dentro di me la luce delle giornate terse di vento.

Altre vite

Eccoci qui, solstizio d’estate. Manca meno di un mese al mio compleanno, e come ogni anno comincio a rimuginare bilanci. I capelli, nonostante il pochissimo sole preso, hanno già un’inquietante tonalità cherubino, resa ancora più inquietante dal fatto che, non sapendo come renderli decenti durante la crescita, ho fatto la permanente. La pelle è ovviamente bianchissima, e l’espressione è quella di chi non riposa a sufficienza da mesi.

Due anni fa cominciava la mia ultima estate a Trieste, solo che io non lo sapevo. Mi arrabattavo a far quadrare quel bilancio da equilibrista, casa mia pareva un crematorio fin dall’alba, e sarei arrivata a fiondarmi in un cinema solo per avere il sollievo dell’aria condizionata. Ricordo tanto sole sulla pelle, innumerevoli sveglie all’alba utilizzate per fare una lunga camminata prima del lavoro, il gelato in pausa pranzo (con immancabile passeggiata sulle Rive), le mie solite vecchiette a Barcola. Quando mi annoiavo, uscivo a camminare senza meta. E’ stata un’estate foriera di grandi cambiamenti, ma non lo sapevo.

Ora attendo che la piccola sapiente si svegli e faccia merenda, per poter poi uscire. Spero che riusciamo ad andare al mare almeno per una settimana, anche se non avendo ancora scelto il posto vedo la cosa piuttosto improbabile. Da giorni sogno un’aperitivo con gli amici, la possibilità di tirar tardi senza pensieri… e una sigaretta.
Siamo altre persone, oggi, e viviamo altre vite.

Martedì prima della partenza

Mi sveglio nel cuore della notte coi gatti addosso, come al solito. Convinta di essere ancora nella posizione in cui mi sono addormentata, simile a Dracula nella bara. Solo alzandomi per andare in bagno mi rendo conto che solo la testa è rimasta sul cuscino su cui l’avevo poggiata. Il corpo attraversa tutto il letto, in diagonale.

Mattinata in gran parte spesa al telefono, per cercare di disdire la linea telefonica e ADSL, e per vedere se si può bloccare la disdetta delle altre utenze e fare un subentro, visto che il padrone di casa ha cambiato idea (forse pensando che io dal venerdì mattina al lunedì pomeriggio non avessi ancora provveduto… illuso!). Mi vien da chiedermi chi sia che fa gli IVR (per chi non lo sapesse, quelle vocine che vi dicono "se vuole essere mandato affanculo elegantemente prema 1, se vuole sentirsi dare dell’idiota prema 2", eccetera), ma certo si tratta di un mentecatto. O di un genio del marketing: nè in un caso nè nell’altro è contemplata l’opzione "disdetta".

Vado in un’agenzia di pratiche auto per fare il passaggio di proprietà di un motorino, e scopro che devo andare in un centro civico… a far che? A quanto mi è dato capire, devo apporre una firma sul certificato di proprietà, ma devo farlo là. Non son stata a discutere: vediamo domattina che mi dicono. Ormai mi faccio trascinare dalla corrente, non mi dibatto… tanto, se devo affogare, affogo lo stesso.

In un negozio, compro due cose che mi servono, poi chiedo al tizio dall’aria trascurata che sta alla cassa se ci sia qualche scatolone grande, intero, per il mio trasloco. Allora alza lo sguardo dalla cassa, guardandomi finalmente in faccia, e scopro che i suoi occhi sono di un blu intensissimo, con striature castano-dorate. Sembrano due lapislazzuli. Mi sto ancora chiedendo se per caso avesse delle lenti a contatto colorate…

Rientrando a casa sfatta, su uno dei pianerottoli fra un piano e un altro mi trovo di fronte un’immagine bizzarra. Un guanto, un tempo beige, ora semplicemente molto sporco, gettato a terra, sotto la finestra, rigido, in una posizione che dà la sensazione che ci sia dentro una mano, col pollice sollevato, che punta verso di me.

Strana giornata, o forse sono io a trarne strane sensazioni, cosciente che un periodo della mia vita si sta chiudendo. Sono molto stanca, spero di riuscire a finire tutto, e poi di avere un po’ di tempo per riposarmi. Sto sicuramente facendo molto di più di quello che il mio medico si aspetterebbe, allo stato attuale. Ma non avendo alternative, come al solito, cerco di non pensarci, e faccio tutto ciò che serve, come al solito.

Always walking

Be’, la situazione è quella che è, vedo più i medici degli amici, chissà che sarà di me fra sei mesi, il tecnico della caldaia continua a non chiamare, e tutto il resto, ma…

Dovevo fare un percorso non lunghissimo, pianeggiante quando non addirittura in discesa, e mi sono presa un’ora per me stessa. Sarà stato il fedele lettore mp3 (siamo già al quarto o quinto auricolare… se li dessi ai gatti per giocarci li distruggerebbero meno velocemente), l’aria frizzante al punto giusto, la necessità di muovermi un po’ per non impazzire, ma son riuscita a dimenticare di trovarmi in centro in mezzo a macchine e gente incazzata, e ho decisamente passeggiato.

Arrivata in piazza della Borsa sorridevo appena, ma sorridevo. Chiedendomi che avessero tutti attorno a me per essere così uniformemente imbronciati…
Sono e rimango convinta che una bella camminata dia più gioia di tante cose che si fanno comunemente per divertirsi (e non costa nulla).

La libreria Borsatti questa settimana sconta tutto al 30%, invece del 15% solito. Sabato ci faccio un salto, ma stavolta mi porto la sporta della spesa, se no faccio come al solito e arrivo a casa col mal di schiena.

Come un’adolescente disadattata si è ritrovata in una città sconosciuta…

"Come sei arrivata a Trieste?"
In varie forme, ho risposto a questa domanda decine di volte, negli ultimi otto anni. Esiste una risposta sintetica, che è quella che dò in genere, ed è: "Ho scelto un corso di laurea che c’era solo qui". Con relativo corollario di spiegazioni sul corso di laurea, la sua utilità, la sua spendibilità a livello lavorativo eccetera. Se volete, potete accontentarvi della risposta breve, fare le solite domande, e subirvi le mie usuali lamentele su come abbiano mandato a puttane un’idea tutt’altro che da disprezzare. O sul mio odio per la maggioranza dei miei compagni di corso.

Se preferite continuare a leggere, lo fate a vostro rischio e pericolo. Si parte da lontano…

Non ho mai pensato di essere strana, finchè non me l’hanno fatto notare gli altri. Pronunciavo le vocali in modo diverso. Leggevo una marea di libri, quando gli altri facevano sport o stavano a ciondolare all’oratorio (e non crediate che ci andassero per devozione, semplicemente era un posto con molto spazio in cui i genitori non sarebbero andati a controllare, perchè si fidavano). Andavo bene a scuola (sebbene, lo giuro, facessi di tutto per avere appena la sufficienza), soprattutto alle medie.

Le continue, deliziose osservazioni della gente attorno a me, unite a una naturale timidezza, hanno condotto a un risultato scontato e piuttosto comune: un’adolescente goffa, introversa, arrabbiata col mondo (e depressa, ma non voglio parlarne ora). L’aspetto non aiutava: magra non lo sono più da quando avevo sei anni, ma almeno ora la ciccia sta più o meno nei posti giusti; allora, invece, sembrava tutta al posto sbagliato, e cercavo di cammuffarmi con ampie T-shirt unisex e pantaloni coi tasconi, più grandi di una o due taglie (molto di questo materiale è poi entrato a far parte del guardaroba di mio fratello), con anfibi ai piedi, sempre. Gli occhiali con la montatura dorata, di metallo (se non ci credete, ce li ho ancora, da qualche parte: un’oscenità), e i capelli lunghi, lisci, sempre legati in una coda, mi davano un’aria a metà fra la Madonna addolorata e il topo di biblioteca. Cosa, quest’ultima, che in effetti ero: terrorizzata dalla gente, trovavo rifugio nei libri e nelle fantasticherie conseguenti. Scrivevo, pure, anche se nemmeno sotto tortura vi farò leggere la maggior parte dei prodotti della mia mente adolescenziale. A coronare il tutto, l’immancabile acne, che solo ora sono ruscita a domare, alla mia tenera età… e nemmeno del tutto…
Insomma, un disastro. E gli epiteti più comuni erano sfigata, secchiona, cozza, cesso, e altri raffinati complimenti.

Con queste premesse sono arrivata all’inizio dell’ultimo anno di scuola superiore. Anno che, in un liceo classico, significa necessariamente: "A che facoltà ti iscrivi l’anno prossimo?"
La mia previdente mamma aveva spinto sulla mia ansia, e mi ero fatta una cultura sulle varie guide, per poi andare a prendere informazioni in loco sulle due opzioni a cui avevo ristretto la scelta:
1. Conservazione dei beni culturali, indirizzo beni archivistici e librari; sede: Ravenna.
2. Scienze e tecniche dell’interculturalità; sede: Trieste.
Visto che i libri erano (e sono) la mia passione, e visto che mamma è romagnola, devo dire che la prima opzione era in leggero vantaggio. Ravenna tra l’altro è molto bella, per quel poco che ricordo, e gli studenti con cui avevo parlato dicevano che sì, c’erano case dello studente, ma erano scomode, e comunque gli affitti erano contenuti.
Trieste invece era l’ignoto, e già la scena del cappuccino al bar mi aveva un po’ spaventata… Significava partire senza alcun punto di riferimento, per una città strana e di confine, per frequentare un corso di laurea che non portava a una figura professionale non ben definita (in questo, l’unica differenza oggi è che il corso di laurea è stato chiuso…). Totale salto nel buio.

Devo spendere una buona parola in merito al mio liceo. Piccolo e provinciale finchè si vuole, ma i professori ci seguivano, cercavano di proporci attività un po’ diverse, di stimolarci a cercare strade alternative per la conoscenza. Cercavano soprattutto di conoscerci. Con qualche eccezione, è ovvio. Ma nel complesso sono stata davvero fortunata.
Quando sono arrivata io, in mezzo a tutti i "giurisprudenza, lettere, lingue, ingegneria (e c’è chi s’è laureato con 110 e lode, alla faccia di chi dice che i classicisti non possono fare gli ingegneri)", ricordo di aver visto facce perplesse, ma anche qualche scintilla di improvvisa attenzione. Ancora faticavo a pronunciare la parola interculturalità tutta di fila e senza incepparmi, ma un paio di insegnanti mi hanno detto più o meno la stessa cosa, anche se in termini leggermente differenti:
"Sono entrambi corsi interessanti, entrambi con scarse prospettive lavorative dopo la laurea, e tu saresti in grado di terminare uno qualsiasi dei due senza problemi. Ma ti interessano troppo le persone perchè tu voglia davvero rinchiuderti in una biblioteca per il resto della tua vita".

Oggi sono laureata in Scienze e tecniche dell’interculturalità, lavoro in un call center e spendo gran parte del poco che riesco a risparmiare in libri, tanto che un giorno, se non riordino, ne finirò sommersa. Già sono in tripla fila… Ovviamente, li metterò in ordine alfabetico, per autore, e solo in subordine per titolo. Ma soprattutto vivo a Trieste. Da dove conto di andarmene presto, d’accordo, ma ci sono rimasta molto più del previsto.
Solo perchè ero un’adolescente disadattata (mi chiedo chi non lo sia stato) e mi interessavano troppo le persone per seppellirmi davvero in una biblioteca per il resto della mia vita.

Trieste nel sole

Pausa pranzo. Solito gelato, solita passeggiata sulle Rive. In cielo non c’è una nuvola, il sole è caldo, c’è appena un po’ di brezza. Percorro il molo Audace fino in fondo, poi mi giro per tornare…

E S. Giusto mi balza incontro. Il castello, la cattedrale, gli alberi, l’intera collina si stampano nella mia retina come un pugno. Piazza Unità, al di sotto, sembra fatta coi mattoncini Lego. Il cielo è un vortice che mi risucchia, gli alberi così verdi da essere dorati.

Trieste in una giornata di sole perfetta, come questa, è un sogno, e insieme di una realtà sconcertante. E’ Vienna trapiantata nel Mediterraneo, è una città nata da una serata con troppo alcool e molta allegria. I contorni dei palazzi sono così netti che se li sfiori potresti sanguinare. Le persone sono solo aliti di vento, fantasmi, fate.
 
Trieste nel sole acquista una sognante concretezza, che non avrà mai in una giornata di pioggia, quando il grigio del cielo e quello dei palazzi si fondono a perfezione, e l’asfalto fa la schiuma, come un sapone che si consuma perchè l’hai dimenticato sotto il rubinetto. Trieste sotto la pioggia scompare, col sole risorge.

In questi momenti, mentre le mie ossa si sciolgono nel sole, insieme a quelle di tutti coloro che mi circondano, sento di amare questa città, dove pure non posso sentirmi a casa. La amo quando in una giornata uggiosa l’odore del porto è forte e sgradevole, carico di salsedine e pesce marcio, ma mi ricorda che le Rive non sono nate per essere un salotto. La amo quando, a Natale o a Pasqua, le campane di S. Giusto cominciano a suonare sopra la mia testa, nascondendo ogni altro suono, battendo nel mio stomaco la gioia della festa. La amo quando gli ubriachi passano a tarda notte in via S. Michele, cantando a squarciagola e lanciandosi allusioni sconce. La amo quando arrivo in treno, nel tardo pomeriggio, e passate le gallerie mi si apre la vista del golfo, del mare, dei palazzi, e delle case nelle cui finestre puoi spiare, dal tuo vagone, mentre il sole cala e accarezza il Carso come una madre.

Non è casa mia. Non può esserlo. Non vuole esserlo. Ma è un posto dove tornerò, da vecchia, alla ricerca di questa luce sui palazzi grigi, e sugli alberi del colle di S. Giusto, col cuore colmo di amore per ogni pietra che calpesterò.