La notizia dell’elefantessa incinta, morta dopo aver mangiato un ananas imbottito di petardi, l’avrete letta tutti, se bazzicate un minimo su internet. Ha suscitato grande indignazione, molti hanno commentato veementemente, augurando cose orribili a chi quell’ananas l’ha preparato.
Non sono senza cuore, anche a me la notizia ha fatto effetto, soprattutto pensando alla vita che sembrava dovesse continuare con lei e invece è stata bruscamente interrotta. Le reazioni che ho letto, però, mi hanno spinta a riflettere.
A fine giugno dello scorso anno, fece il giro del mondo la fotografia di un uomo morto nel tentativo di attraversare il Rio Grande per entrare negli Stati Uniti. L’uomo portava in spalla la figlia, infilata dentro la sua maglietta probabilmente perché non venisse trascinata via dalla corrente, e i due cadaveri galleggiavano insieme, a faccia in giù, vicini per sempre.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime solo nel ricordare quell’immagine, che però non suscitò una reazione altrettanto diffusa di quella attuale. Quelli erano esseri umani, ma agli occhi di molti erano soprattutto migranti clandestini – e per ciò stesso, non meritevoli della compassione che si dà a un animale.
Quel padre e quella figlia, in fondo, sono per molti di noi simili ai contadini che imbottiscono un ananas di petardi per cacciare via i cinghiali, nel disperato tentativo di salvare il raccolto da cui dipende la loro sopravvivenza: persone incivili che meritano la morte, che le anime sensibili non esitano ad augurare loro.