In chiave

Partire con la nebbia, bianca e luminosa, su strade familiari e insieme ostili. È come se il paesaggio si nascondesse.

Mi viene da pensare che non voglia che la nostalgia, come sempre, mi faccia sentire trafitta.

Poi la.nebbia si apre, e compare l’Appennino, che si avvicina rapidamente.

Montagne e boschi e piccoli agglomerati di case, il fiume e la città dei librai, sotto un cielo azzurro e limpido.

È come se il mondo cantasse la mia canzone, mentre cerco di dimenticarla.

Altrove

Ci sono così tanti luoghi, in giro per l’Italia.

Luoghi piccoli e ignoti, paesi spopolati, case isolate su crinali boscosi, campanili come segnali di una presenza umana ormai dimenticata.

Luoghi che quando li vedi ti spingono a chiederti chi ci abbia vissuto o ci viva, e come, e se sia una vita che potrebbe piacerti.

Mi chiedevo, osservando le case sui pendii della Lunigiana, se davvero dobbiamo stiparci nelle città, e chi l’abbia deciso.

Dall’alto

Da mesi, ormai, oscillo tra pochi momenti buoni, e molti altri in cui sono francamente molto giù, fisicamente e psicologicamente.

Trovando difficile ricaricarmi in mezzo al cemento e alla confusione, un giorno ho deciso di lasciare i bambini a scuola e poi andarmene a camminare in montagna. In alto, dove c’è silenzio e si vede lontano.

Lassù, dove si sentivano solo grilli, uccellini e campanacci di vacche, ho volto lo sguardo in direzione di Milano, in direzione dei luoghi dove vivo, e ho visto una cappa marroncina, netta, al di sopra della città.

È come se quella cappa pesasse su di me, sulle mie idee, i miei sogni. Il mio futuro.

Affinità

Da quando sono disoccupata, accompagno i bambini a scuola quasi sempre a piedi. È una scelta economica, ecologica e legata al mio bisogno di fare un minimo di moto.

Sia all’andata sia al ritorno incontro molti altri genitori che fanno altrettanto, quasi esclusivamente donne, prevalentemente non italiani.

Questa mattina, mentre tornavo dal nido, ho incrociato a un attraversamento pedonale un terzetto di donne arabe che conversavano fra loro, rientrando dopo aver accompagnato i figli a scuola.

Mi è venuto in mente mio fratello, ormai da 10 anni stabilitosi a Londra, il quale afferma di evitare più possibile gli italiani, poiché tendono a formare gruppi nei quali si parla solo italiano e spesso si isolano dagli inglesi.

Eppure, qui nel nostro Paese stigmatizziamo quelle comunità che tendono a restare compatte, a parlare sempre la propria lingua mentre ignorano l’italiano, a mantenere i propri usi in un Paese che non è il loro.

Dovremmo provare sempre a osservarci dall’esterno, a renderci estranei a noi stessi, per conoscerci davvero.

In breve_94

Bella, Bergamo alta, immersa in una luce dorata mentre attorno tutto è plumbeo, e incoronata da un timido lembo di arcobaleno.

Al lago

Vent’anni dopo il mio diploma, sono tornata ieri nella cittadina dove ho frequentato le superiori, sul lago d’Iseo.

Il fatto di essere lì per un colloquio di lavoro è stato una fortuna, probabilmente, perché quando mi sono trovata davanti quei luoghi noti, in gran parte invariati, ho letteralmente vacillato. Mi è girata la testa e sono stata sul punto di piangere, ma le circostanze mi hanno costretta a mantenere il controllo.

Il lago, tanto per aumentare l’effetto, si presentava davvero al suo meglio, e sembrava strano ricordare tutte le volte in cui ho atteso l’autobus sotto la pioggia, in piedi su uno stretto marciapiedi, le auto che passando ci inondavano con l’acqua delle pozzanghere. Siccome eravamo un bel gruppetto di studenti, di solito uno teneva l’ombrello sopra la testa e l’altro davanti, a mo’ di barriera per le gambe.

Quando viviamo quotidianamente un luogo, quando ci siamo abituati, spesso ci sfugge la sua reale bellezza. Sono stati gli occhi di mio marito e della bimba che sorride a regalarmi uno sguardo vergine su qualcosa di familiare, ma mi ci sono voluti vent’anni di assenza per capire.

Sognare, consapevolmente

Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. (Shirley Jackson, L’incubo di Hill House)

Si dice che sognare non costa nulla, ma sognare costa caro.

Costa in termini di energie, quelle spese a inseguire il sogno e quelle che servono a tenerlo a galla, a impedire che sprofondi nel mare delle delusioni, delle difficoltà, delle abitudini.

Costa caro in termini di rapporti, perché chi ti circonda, soprattutto chi dovrebbe sostenerti e aiutarti a volare, quando ne parli ti guarda e scuote la testa. Meglio un lavoro frustrante ma sicuro, meglio una vita di grigia infelicità, ma con tante comodità, tanti oggetti che la rendano più sopportabile.

Ti trovi a chiederti se sei un pazzo irresponsabile o se siano gli altri a non avere coraggio. Ti trovi a chiederti se sognare sia davvero una cosa da ragazzini, o una necessità profonda e irrinunciabile dell’essere umano.

E guardandoti allo specchio capisci che magari non è fondamentale per tutti, ma lo è per te.

Cieli blu

Nel fiume

La notizia dell’elefantessa incinta, morta dopo aver mangiato un ananas imbottito di petardi, l’avrete letta tutti, se bazzicate un minimo su internet. Ha suscitato grande indignazione, molti hanno commentato veementemente, augurando cose orribili a chi quell’ananas l’ha preparato.

Non sono senza cuore, anche a me la notizia ha fatto effetto, soprattutto pensando alla vita che sembrava dovesse continuare con lei e invece è stata bruscamente interrotta. Le reazioni che ho letto, però, mi hanno spinta a riflettere.

A fine giugno dello scorso anno, fece il giro del mondo la fotografia di un uomo morto nel tentativo di attraversare il Rio Grande per entrare negli Stati Uniti. L’uomo portava in spalla la figlia, infilata dentro la sua maglietta probabilmente perché non venisse trascinata via dalla corrente, e i due cadaveri galleggiavano insieme, a faccia in giù, vicini per sempre.

Mi si riempiono gli occhi di lacrime solo nel ricordare quell’immagine, che però non suscitò una reazione altrettanto diffusa di quella attuale. Quelli erano esseri umani, ma agli occhi di molti erano soprattutto migranti clandestini – e per ciò stesso, non meritevoli della compassione che si dà a un animale.

Quel padre e quella figlia, in fondo, sono per molti di noi simili ai contadini che imbottiscono un ananas di petardi per cacciare via i cinghiali, nel disperato tentativo di salvare il raccolto da cui dipende la loro sopravvivenza: persone incivili che meritano la morte, che le anime sensibili non esitano ad augurare loro.

In breve_89

La quarantena ha portato davvero maggiore consapevolezza.

E la mia anima cammina in alto, sopra la linea degli alberi.

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