Altrove

Ci sono così tanti luoghi, in giro per l’Italia.

Luoghi piccoli e ignoti, paesi spopolati, case isolate su crinali boscosi, campanili come segnali di una presenza umana ormai dimenticata.

Luoghi che quando li vedi ti spingono a chiederti chi ci abbia vissuto o ci viva, e come, e se sia una vita che potrebbe piacerti.

Mi chiedevo, osservando le case sui pendii della Lunigiana, se davvero dobbiamo stiparci nelle città, e chi l’abbia deciso.

Nel fiume

La notizia dell’elefantessa incinta, morta dopo aver mangiato un ananas imbottito di petardi, l’avrete letta tutti, se bazzicate un minimo su internet. Ha suscitato grande indignazione, molti hanno commentato veementemente, augurando cose orribili a chi quell’ananas l’ha preparato.

Non sono senza cuore, anche a me la notizia ha fatto effetto, soprattutto pensando alla vita che sembrava dovesse continuare con lei e invece è stata bruscamente interrotta. Le reazioni che ho letto, però, mi hanno spinta a riflettere.

A fine giugno dello scorso anno, fece il giro del mondo la fotografia di un uomo morto nel tentativo di attraversare il Rio Grande per entrare negli Stati Uniti. L’uomo portava in spalla la figlia, infilata dentro la sua maglietta probabilmente perché non venisse trascinata via dalla corrente, e i due cadaveri galleggiavano insieme, a faccia in giù, vicini per sempre.

Mi si riempiono gli occhi di lacrime solo nel ricordare quell’immagine, che però non suscitò una reazione altrettanto diffusa di quella attuale. Quelli erano esseri umani, ma agli occhi di molti erano soprattutto migranti clandestini – e per ciò stesso, non meritevoli della compassione che si dà a un animale.

Quel padre e quella figlia, in fondo, sono per molti di noi simili ai contadini che imbottiscono un ananas di petardi per cacciare via i cinghiali, nel disperato tentativo di salvare il raccolto da cui dipende la loro sopravvivenza: persone incivili che meritano la morte, che le anime sensibili non esitano ad augurare loro.

In breve_83

Quello che comprerete oggi scontato l’avreste comprato anche a prezzo pieno?

Consumo

La pubblicità in TV, in genere, non è esattamente piacevole. Ricordo che mio padre a volte all’ennesima interruzione cambiava canale, e tanti saluti al programma che stavamo guardando.

Un tipo di pubblicità particolarmente irritante, per me, è quella delle tariffe telefoniche che includono il telefono (ovviamente uno smartphone di alta gamma), con la possibilità di cambiarlo ogni anno.

Il problema non è lo smartphone in sé, e nemmeno la pubblicità, ma la creazione di bisogni per spingere al consumo.

Per questioni di budget mi sono imposta per anni di chiedermi per ogni acquisto se mi servisse davvero, ma col tempo ne ho colto i risvolti etici e pratici. Non credo nel consumo come stile di vita, non voglio una casa piena di oggetti inutilizzati. Ciò che possiedo non definisce ciò che sono.

Mia madre, figlia di un’altra generazione, conserva e accumula tutto, ed è riuscita a riempire una casa spropositatamente grande per una persona sola, tanto che quando le bambine stanno da lei per un paio di settimane fa fatica a liberare un cassetto per i loro vestiti.

Penso a volte agli scatoloni nella sua umida cantina, pieni di oggetti che saranno ormai da buttare e che avrebbero potuto essere donati o venduti. Penso a quanto poco riflettiamo su ciò che realmente ci serve, e su quanto realmente abbiamo.

Il Vangelo secondo Facebook

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

Ai tempi dei social network, non è difficile capire cosa pensino le persone. Anzi, a volte è difficile non rimanere delusi quando persone che tutto sommato consideravi intelligenti, o buone, postano commenti o condividono link pieni di astio, odio e pregiudizi.

Una delle dicotomie più frequenti è quella link religiosi/link xenofobi. Un attimo prima un crocifisso con la scritta “Condividi se anche tu lo ami”, un attimo dopo una notizia montata ad arte con didascalie tipo “È ora di finirla! Rimandiamoli tutti a casa!” Come se chi sale su una barca mettendo a rischio la vita propria e dei propri figli lo facesse per divertimento, o per farci dispetto, o per chissà quale piano di colonizzazione. Credo che l’unica differenza tra me che allatto sul divano e la donna che abbraccia ancora il figlio neonato, sul fondo del Mediterraneo, sia il luogo di nascita.

La religione, nel corso dei secoli, è stata spesso piegata a esigenze politiche o economiche, il suo reale messaggio di amore, di uguaglianza e di giustizia (e non vale solo per il cristianesimo) distorto fino a divenire solo una rigida tradizione, non uno strumento di elevazione morale e spirituale.

È difficile amare il prossimo, ma dovrebbe essere un po’ più facile per noi, che in fondo abbiamo tutto.

Tagli

Quando scoprii di essere incinta della piccola sapiente mi rivolsi all’ospedale della città in cui vivevo, centro d’eccellenza pediatrico e ginecologico di livello internazionale. Lì stabilirono la data presunta del parto e la misero per iscritto, pur avendomi confermato a voce più di una volta che le ecografie confermavano i miei calcoli sulla data del concepimento.

Mesi dopo, nell’ospedale in cui avrei partorito, spiegai come erano andate le cose, e loro mi credettero, ma un piccolo ospedale di provincia non poteva andare contro quanto scritto da un centro di eccellenza. Fu così che per due giorni tentarono di indurre il parto, come se fossi due settimane oltre il termine mentre a malapena ci ero arrivata, e terminò in un cesareo d’urgenza nel cuore della notte.

Quasi sei anni dopo, sentita la mia storia, la ginecologa che mi seguiva mi fece subito fare un’ecografia di datazione. In quella successiva, tuttavia, la rapida crescita della bambina portò ad anticipare la data presunta di una settimana. L’ospedale, date le dimensioni della nascitura, mi fissò un cesareo solo una settimana dopo tale data, ovvero quando secondo la prima datazione sarei stata a termine.

Arrivai in ospedale la notte precedente, con il travaglio appena iniziato. Arrivato il mattino, e l’ora in cui sarei dovuta entrare in sala operatoria, mi dissero che c’era un grosso rischio per la bambina, e accettai il secondo cesareo.

Entrambe le volte i mesi successivi sono stati pieni di dolore, e non riuscivo nemmeno a svolgere le attività di base per occuparmi della casa e delle figlie. Con la bimba che sorride, addirittura, presi antidolorifici per quasi tre mesi. Allattamento difficile e breve la prima volta, completamente fallito la seconda. Mio marito si alzava la notte per dare il biberon alla bambina, perché io ci mettevo svariati minuti solo per alzarmi dal letto.

Manca meno di un mese alla data in cui dovrebbe arrivare naturalmente a termine la mia attuale gravidanza. Ho fatto quanto ho potuto per evitare il terzo cesareo ed avere finalmente un parto naturale, ma la lettura della mia cartella clinica ha fatto sì che questa possibilità venisse definitivamente esclusa. Mi preparo quindi a un terzo intervento, con conseguenti difficoltà e dolore, e a livello psicologico la cosa non mi risulta affatto semplice.

Rifletto però su come piccoli errori o decisioni prese da medici che mi hanno vista solo una volta abbiano avuto un enorme impatto sulla mia vita e su quella dei miei figli. Mantenere una datazione basata sull’ultima mestruazione nonostante un ciclo molto irregolare, scegliere la soluzione più semplice per l’ospedale, suturare in un modo anziché in un altro… sembrano piccole cose, ma fanno un’enorme differenza per me, che mi preparo ad accogliere un bambino senza sapere se potrò occuparmene.

Il futuro

Ci sono tante riflessioni innescate dalle elezioni europee.

Alcune di esse riguardano l’ambiente e l’attenzione alle tematiche correlate.

E a me viene in mente la piccola sapiente che, vedendomi lavare i pannolini usati con la bimba che sorride così da averli pronti quando nascerà il piccolo, ha sospirato:

“Però non è giusto… avrei voluto anch’io i pannolini lavabili al posto di quelli schifosi usa e getta”.

Quella che oggi è una scelta strana e un po’ fricchettona un domani, grazie alle mie figlie, potrebbe fare il bene di tutti, anche per chi mi ha detto “E a me che importa se ci mettono 500 anni a degradarsi, io mica ci sarò”

Refugees

Quando dormono, i bambini fino a quattro o cinque anni tengono tutti la stessa posizione.

La stessa posizione che prendono i loro piccoli cadaveri quando vengono portati a riva dal mare, dopo il naufragio della barca che doveva portarli a una nuova vita.

Davvero crediamo che i genitori che mettono così a repentaglio la vita dei figli non siano veramente disperati, pronti a rischiare e a dare tutto ciò che hanno per lasciare il loro Paese?

Davvero è possibile, davanti a cadaveri che potrebbero essere quelli dei nostri figli o nipoti (io ci ho visto la mia secondogenita, e ho pianto), continuare a dire “Ben gli sta, potevano starsene a casa loro”?

Un giorno al supermercato ho incontrato una donna incinta con un bimbo sui due anni. Parlava solo inglese ed era a piedi, col passeggino.

Le ho offerto un passaggio e sul momento non capiva. Poi mi ha detto:

“Thank you. People don’t like to help refugees”

Una casa

Non so per quale motivo, ma riesco a vederla sempre e solo al ritorno.

Percorrendo la A15 verso Parma, poco dopo l’uscita di Berceto, sulla destra c’è una casa, la casa dei miei sogni.

È una vecchia casa di montagna, non abitata ma ben tenuta, utilizzata per le vacanze. Se ne sta lì a prendere il sole su un pendio erboso, poco lontana dalla strada eppure isolata.

Ogni volta mi chiedo quando, finalmente, la mia vita si svolgerà in una casa così anziché in un condominio circondato da strade.

E una parte di me si ferma lì. 

Due fatti, un paio di idee

Manifestazione a Roma degli operai di una acciaieria, i quali rischiano di perdere il lavoro.
Il corteo si sta muovendo verso il ministero, alcuni poliziotti cominciano a caricare e a usare il manganello.
Si dirà, e così ha anche riferito il ministro dell’Interno in Parlamento, che pensavano che gli operai volessero occupare la stazione Termini. Che è dalla parte opposta alla direzione in cui pare procedesse il corteo.
Subito alcuni cominciano a gridare contro la polizia, contro il governo oppressore dei sindacati, contro la violenza di Stato.
Altri – ne ho fra gli amici di Facebook – sostengono che considerato che ci son stati feriti anche fra i poliziotti, forse il corteo non era pacifico, non son stati i poliziotti ad attaccare, o cose simili.
Secondo me, semplicemente, alcuni poliziotti hanno fatto una stronzata. Forse erano degli esaltati (ce ne sono), forse erano meno esperti e addestrati degli altri, ma hanno fatto un clamoroso errore di valutazione e agito nel modo sbagliato. Che si siano fatti male anche loro non stupisce: in determinate circostanze perfino io, che sono donna e non particolarmente robusta, potrei gettare a terra un uomo; immaginate cosa possa fare una folla di operai di una acciaieria, anche solo spingendo per respingere una carica… facile che qualcuno si faccia male.
Credo anche che gli uni e gli altri, i sostenitori dei sindacati e quelli della polizia, rimarranno della loro idea. Trovare un nemico da incolpare, col quale arrabbiarsi, è un ottimo modo per sfogare le proprie frustrazioni, o per portare acqua al proprio mulino; utilizzare il buon senso è fuori moda, e si rischia di vedere che è la parte che si sostiene ad avere torto.

L’amministratore delegato di Apple ha fatto coming out, e pare che abbia dichiarato che essere omosessuale sia il più grande dono che Dio gli ha fatto. E in effetti credo che appartenere a una minoranza perseguitata ti apra gli occhi e ti costringa a mettere in prospettiva tutto, a immedesimarti con gli altri, a non dare per scontato ciò che è considerato la norma.
Però mi disturba che siamo tutti considerati eterosessuali fino a prova contraria. Vorrei che tutti, quando ci rendiamo conto di quali siano le nostre inclinazioni sessuali, fossimo costretti a fare coming out, a dichiarare apertamente ciò che siamo. Anche eterosessuali, come nel mio caso. Sono certa che se così fosse molte persone che oggi si dichiarano etero sarebbero costrette a riflettere meglio su se stesse, e si scoprirebbero forse diverse da quello che credono, con grande beneficio per tutti.

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