In breve_95

Come uno scoglio fra le onde che si infrangono, violente e incessanti, uno scoglio che ospita fiori dai colori luminosi.

Il picchetto d’onore

È morto un uomo che amavo.

Sapevo di amarlo, ma non sapevo quanto. Non sapevo che fosse, nel mio sentire, quasi un padre o un fratello maggiore.

Ho visto le sue mani, che ricordavo forti e abili e espressive, fatte fragili dall’età e dalla morte, strette su un rosario che lo accompagnerà nell’eternità. Non creeranno più cose belle da cose umili, non gesticoleranno più nel discorso, non toglieranno più il tabacco lasciato sulle labbra dalle sigarette senza filtro.

Non ho potuto toccarlo, dargli una carezza, non ci sono riuscita. Aspettavo che si alzasse, ci dicesse che ci aveva fatto uno scherzo e mi abbracciasse forte – perché abbracciava forte, mio cugino.

Mi ha insegnato che l’amore va oltre le differenze, le supera d’un balzo.

C’è sempre stato, e ora non c’è più.

Il suono del silenzio

È quando c’è in te un universo che impari ad apprezzare il silenzio.

È come la grande, limpida, potente voce di uno strumento solista, supportata ed elevata da un’orchestra apparentemente piena di dissonanze, ma in realtà perfettamente accordata e in armonia.

Non è facile ascoltarla, è intensa e dolorosamente sincera. Non ti puoi nascondere, non puoi mentire, non puoi fingere.

Il rumore della vita la copre, e molti lo rincorrono proprio per non dovercisi confrontare.

Poi c’è chi la vuole sentire, sempre, per quante lacrime ne possano sgorgare.

Nella loro ora di libertà

Ieri sono dovuta andare in anticipo a prendere la bimba che sorride, la quale frequenta ormai la scuola primaria.

Mentre attendevo nell’androne, vedevo bene il cortile interno della scuola. Era una bella giornata, faceva anche caldo per essere gennaio, e mi sono trovata a osservare una scena bizzarra.

Una decina di bambini, probabilmente una terza, tutti con indosso giacca e mascherina, girava attorno al cortile. I bambini erano in fila indiana, distanziati uno dall’altro, e giravano di continuo, a passo sostenuto, mentre una donna (l’insegnante, suppongo) li osservava dal centro del cortile.

Mi sono sentita sdoppiata, divisa. Da un lato ho apprezzato il tentativo dell’insegnante di far fare movimento ai bambini, che altrimenti con la palestra inaccessibile causa covid passerebbero tutte le loro giornate seduti, e di far anche respirare loro aria più fresca di quella che c’è in aula (pulita, così vicini a Milano, temo sia impossibile). Dall’altro lato mi hanno ricordato i carcerati dei film, mentre camminano in cerchio durante l’ora d’aria.

E ora sono qui, dentro la mia casa calda ma angusta, a passare giornate tiepide e assolate davanti al computer, svolgendo un lavoro che mi serve disperatamente ma che mi fa sentire, in fondo, come se girassi in tondo nel cortile di una vita che, invece, si svolge ricca e vibrante altrove.

Io come (quasi) doula

A giugno 2020, soffrendo per il mobbing sempre più pesante da parte del mio capo e non sentendomi più a mio agio nella vita e nel lavoro che facevo, mi sono dimessa.

Da quasi un anno e mezzo vivo della Naspi, affiancata ovviamente allo stipendio di mio marito, e abbiamo dovuto fare economia per far quadrare i conti; ma è stato, allo stesso tempo, un anno e mezzo in cui sono cresciuta, ho frequentato corsi di diverso tipo e infine ho intrapreso un percorso di formazione per diventare doula.

Mancano solo due settimane all’esame finale, e nelle ultime lezioni mi sono trovata a fare un bilancio non solo della mia formazione, ma della mia vita.

La bambina di 3 anni della foto era appena uscita da una malattia grave, che l’aveva lasciata debilitata e con molte limitazioni in ciò che poteva fare o mangiare, eppure era una bambina fiduciosa, curiosa, piena di voglia di fare e di conoscere. Crescendo tutto questo si è offuscato, è stato coperto dalle esperienze e necessità della vita, e apparentemente quella bambina non c’è più; eppure so, sento di essere ancora la stessa, nel profondo, e che il nucleo della mia personalità è rimasto lì, intatto e impossibile da scalfire.

Questo percorso mi ha permesso di esplorarmi, scavare a fondo, rimettermi in equilibrio e al centro – il che è quasi paradossale, in una professione che deve invece mettere al centro la madre e i suoi bisogni e desideri; ma è necessario conoscere se stessi, prima di conoscere altro.

Proprio nel momento in cui arriva una notizia che mi impedirà di fatto di praticare questa professione, che calza come un guanto su quello che ero, che sono e su tutto ciò che ho vissuto e imparato nella mia vita, mi rendo conto di essere come un torrente di montagna, con tratti calmi e tratti tumultuosi, pozze profonde e zampilli, un torrente che è assieme sollievo e pericolo, qualcosa che è sempre lo stesso da lunghissimo tempo ma insieme mai uguale a quello che era, grazie all’acqua che scorre – e a volte travolge.

Dall’alto

Da mesi, ormai, oscillo tra pochi momenti buoni, e molti altri in cui sono francamente molto giù, fisicamente e psicologicamente.

Trovando difficile ricaricarmi in mezzo al cemento e alla confusione, un giorno ho deciso di lasciare i bambini a scuola e poi andarmene a camminare in montagna. In alto, dove c’è silenzio e si vede lontano.

Lassù, dove si sentivano solo grilli, uccellini e campanacci di vacche, ho volto lo sguardo in direzione di Milano, in direzione dei luoghi dove vivo, e ho visto una cappa marroncina, netta, al di sopra della città.

È come se quella cappa pesasse su di me, sulle mie idee, i miei sogni. Il mio futuro.

Dis(occu)p(er)azione

Capita spesso, su giornali, social o altri canali di comunicazione, di sentire della diatriba le persone non vogliono lavorare/le aziende pagano troppo poco.

Personalmente ho visto diversi annunci con retribuzioni ridicole (3 o 4 euro all’ora), spesso per lavori che richiedono anche un minimo di competenze. Esiste anche il discorso costi/retribuzione: se vengo pagato 10, ma i costi per trasporti e gestione della famiglia ammontano alla stessa cifra (o più alta) non posso certo accettare. Ed è qui che probabilmente falliscono molti percorsi di reinserimento.

Ho imparato anni fa che, con una laurea ed esperienze da impiegata, non vengo neppure presa in considerazione per impieghi tipo addetta alle pulizie; ho altresì imparato che come donna, prima fertile e poi con figli, anche laddove io sia perfettamente qualificata mi si preferirà qualcuno che non abbia figli. O che abbia organi riproduttivi diversi dai miei.

Ho lasciato il mio lavoro sotto pressioni che sembravano prese da un manuale di mobbing, a partire dal demansionamento al rientro dalla maternità. Da allora, e sono passati 14 mesi, ho fatto una manciata di colloqui, che si possono contare sulle dita di una mano, e ricevuto alcune proposte che per ragioni geografiche o logistiche non ho potuto accettare.

Ogni volta che la mia candidatura per un impiego viene scartata mi sento più preoccupata e inutile; la Naspi si è già ridotta di circa il 20%, e durerà ancora meno di un anno, per i lavori che vorrei fare non sono considerata adatta, e per quelli che non mi interessano ma so fare bene vengo comunque considerata inadatta, senza nemmeno fare un colloquio.

E quindi torna una domanda che mi sono già fatta su questo blog, ma senza risposte concrete: come si ricomincia a 40 anni e senza mezzi economici?

Cambiamento e ostacoli

Mesi di cambiamenti. Non fuori, ma in me.

Fuori nulla cambia, nulla asseconda i miei cambiamenti, e questo si fa via via più pesante.

Se la me che lavorava freneticamente in un ufficio acquisti tutto sommato si adattava alla vita della provincia di Milano, la me disoccupata, in formazione e in trasformazione dell’ultimo anno regge male sia l’inattività sia la frenesia inconcludente e capitalista che la circonda.

Come molte altre volte in passato, mi pare di lottare contro un mondo che mi vuole in un modo che non sento mio, e mi costringe con una leva potente: la necessità di mantenere me stessa e i miei figli, ché lo stipendio di mio marito, all’assottigliarsi della Naspi, basta a malapena.

Ma il periodo non è dei migliori, e l’assoluta assenza di mezzi e dei giusti contatti fa sì che nulla arrivi, e che là dove provo ad aprire porte queste mi vengano sbattute in faccia.

Di nuovo, penso che tra volere e potere ci sia un abisso, che non ho mezzi per colmare.

PlasticaNo

Stamattina sono entrata in un noto negozio bio, per acquistare qualcosa che non avrei trovato altrove.

Ho visto scaffali e scaffali di cibi costosi, alcuni difficili da reperire, altri piuttosto comuni.

Ho visto prodotti non dissimili da quelli che si possono trovare in qualsiasi supermercato, ma declinati in versione biologica o biodegradabile.

Mi sono chiesta, uscendo, se sia davvero necessario utilizzare bicchieri o tovaglioli usa e getta, e se sceglierli biodegradabili non sia solo un modo per lavarsi la coscienza, senza però cambiare realmente le proprie abitudini negative.

Ho anche riflettuto su quanto questo tipo di negozio, dove una famiglia normale non potrebbe mai permettersi di fare la spesa, risponda probabilmente più a richieste commerciali, legate a una moda, che a una reale spinta al cambiamento, e porti anche a considerare la scelta di ridurre il proprio impatto sull’ambiente come qualcosa che solo i ricchi possono permettersi.

Sono convinta che piccoli cambiamenti da parte di tutti possano migliorare il mondo, ma mi piacerebbe che tutti potessero davvero permettersi di farli.

Affinità

Da quando sono disoccupata, accompagno i bambini a scuola quasi sempre a piedi. È una scelta economica, ecologica e legata al mio bisogno di fare un minimo di moto.

Sia all’andata sia al ritorno incontro molti altri genitori che fanno altrettanto, quasi esclusivamente donne, prevalentemente non italiani.

Questa mattina, mentre tornavo dal nido, ho incrociato a un attraversamento pedonale un terzetto di donne arabe che conversavano fra loro, rientrando dopo aver accompagnato i figli a scuola.

Mi è venuto in mente mio fratello, ormai da 10 anni stabilitosi a Londra, il quale afferma di evitare più possibile gli italiani, poiché tendono a formare gruppi nei quali si parla solo italiano e spesso si isolano dagli inglesi.

Eppure, qui nel nostro Paese stigmatizziamo quelle comunità che tendono a restare compatte, a parlare sempre la propria lingua mentre ignorano l’italiano, a mantenere i propri usi in un Paese che non è il loro.

Dovremmo provare sempre a osservarci dall’esterno, a renderci estranei a noi stessi, per conoscerci davvero.

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